Dede e coronavirus. La Quaresima di quest’anno, davvero inedita, ci coglie in cammino verso il buio del Getsemani, la brutalità del Calvario, ma anche verso la luce che promana dalla Resurrezione dell’alba di Pasqua. “Nell’angoscia ho gridato al Signore; mi ha risposto, il Signore” (Salmo 118). Abbiamo voluto aprire un Diario della speranza e raccogliere le riflessioni di diversi personaggi, dal cardinale al prete di strada, dal monaco al vescovo, che acompagneranno i lettori di Famiglia Cristiana verso la Pasqua. A ognuno abbiamo proposto questa traccia di riflessione: «Cosa suggerisce, basandosi sull’Antico e Nuovo Testamento, sulla scorta del Magistero e della sua esperienza pastorale, ai familiari che hanno perso un loro caro, agli ammalati che stanno combattendo contro il virus, alle persone che hanno una paura profonda e paralizzante per sé, per i propri cari, per l’Italia?».
Il primo contributo è del monaco benedettino fratel MichaelDavide Semeraro*
Sopportare con grazia
Con una certa commozione ho letto che il cardinale vicario di Roma, Angelo De Donatis, nella sua omelia dell’11 marzo scorso durante la liturgia eucaristica a conclusione della giornata di preghiera e digiuno per intercedere presso l’Altissimo per la fine della pandemia di coronavirus, abbia citato Etty Hillesum. Molti amici mi hanno subito mandato un messaggio per farmi notare questa bella coincidenza. In un momento di così grande fatica dovuta alla sofferenza certo, ma soprattutto a un senso crescente d’insicurezza e di senso di minaccia, Etty Hillesum pur non essendo una “sorella nella fede” spunta come una stella di consolazione come “sorella in umanità” per tutti e anche per i fedeli cristiani. Cosi ha concluso il cardinale: «Lo sapeva bene una giovane ebrea morta ad Auschwitz nel 1943, Etty Hillesum: “L’unica cosa che possiamo salvare è un piccolo pezzo di te in noi stessi. Non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia”». Un’altra parola mi torna in mente annotata da Etty Hillesum nel suo Diario: «Bisogna accettare le proprie pause».
Proprio come le cose più importanti della creazione quale può essere una gestazione, una scoperta o un’invenzione, hanno bisogno di tempo… così gli umani cammini hanno bisogno di tutto il loro tempo, ma anche di pause, di sospensioni e di rimandi. Il rallentamento del nostro ritmo consueto può essere un’occasione per guadagnare in profondità e per amplificare la nostra modalità di vivere le realtà cosi ampie e variegate della nostra vita. La sfida di passare dal galoppo delle emozioni e delle sensazioni alla pacata degustazione di ogni frammento di vita, anche quando è limitato dalla costrizione della situazione, diventa un compito per crescere in umanità.
Il senso chiaro di fragilità può diventare l’occasione per cogliere l’essenziale e tenersi pronti a tutto, anche a ciò che ci sconvolge. La «lentezza» e il «torpore» che sembrano quasi indispettire e allarmare questa donna appassionata e vivace fino ad essere frizzante, diventarono gradualmente per Etty degli alleati irrinunciabili. Etty Hilesum imparò a riconoscere, in un contesto di tremenda “vulnerabilizzazione” come fu la Shoah, la loro imperdibile utilità per il lavoro interiore. Proprio questo lavoro, cui era in gran parte impreparata, la rese capace di tenere la sua posizione nella storia e di fronte al mondo fino alla fine e ben oltre la conclusione della sua vita. Il compimento vissuto da Etty Hillesum e quella pace trovata, senza perdere nulla delle sue inquietudini e della sua ribellione davanti alla sofferenza e al male, diventano una sorta di esempio e di incoraggiamento per quello che stiamo vivendo.
Dobbiamo infatti riconoscere che siamo diventati una generazione non certo «malvagia» (Luca 11,29), ma sicuramente troppo frettolosa. Talmente pressati e continuamente stimolati non abbiamo talora tempo e modo per guardarci dentro e lasciarci veramente guardare dalla vita. Questa distrazione radicale non ci dà più la voglia di curiosare nel grande mistero di cui siamo parte senza esserne il centro. Ciò che sta ora accadendo non può certo lasciare insensibili. Dobbiamo scegliere di guadagnare in profondità. È questo l’unico modo per raggiungere le periferie talora così poco frequentate della nostra personalità, perché tutto sia più luminoso e sereno.
Abbiamo l’occasione di ritrovare quell’armonia di cui portiamo nel cuore non solo l’insopprimibile nostalgia, ma pure l’alfabeto necessario per narrarla e trasmetterla soprattutto nei momenti più difficili e gravi. Una distinzione è fondamentale: «L’ottimismo forzato è una delle malattie del nostro secolo: l’obbligo di mostrarsi sempre positivi, chiudendo gli occhi di fronte a tutto ciò che minaccia i fragili fili su cui si trova appesa la nostra felicità a buon mercato. Quanta psicologia da quattro soldi spinge in questa direzione! Mentre la vita cristiana è orientata verso quello che Emmanuel Mounier chiamava “l’ottimismo tragico”: un ottimismo radicale nell’esito ultimo del nostro pellegrinaggio, accompagnato però da una seria presa di coscienza delle nubi e degli ostacoli sul cammino. La fede cristiana prende sul serio la sofferenza e la morte» (G. Gonella, Nel deserto il profumo del vento, Il Margine, Trento 2010).
La sofferenza non lascia mai uguali a se stessi: o ci rende migliori o ci rende peggiori. La morte di alcuni, la sofferenza di tanti e la paura di tutti sono un segno che ci richiama ad un sussulto di dignità: siamo tutti malati di umanità! E qui la preghiera – nel senso più ampio e variegato – è un’àncora sicura: rivolgendoci all’Altissimo, come creature tra le creature, ritroviamo la nostra giusta dimensione. Così potremo maturare la capacità di assumere persino la morte senza smettere di amare la vita e di lottare, appassionatamente, perché tutti l’abbiano in abbondanza.
Una domanda rimane in sospeso: «Come uomini e donne sapremo riannodare e rafforzare quella “social catena” per far fronte all’“empia natura” di cui parlava, con il suo pessimismo illuminato, Giacomo Leopardi nella sua Ginestra?». E ancora: «Come credenti sapremo distinguere l’illusione dell’immortalità dal desiderio della vita eterna verso cui ci volgiamo serenamente mettendo in conto la morte nostra e delle persone che amiamo?».
Tutto ciò non è certo facile, ma è all’altezza del nostro essere creati «ad immagine e somiglianza» (Genesi 1,26) di Dio. La coscienza del nostro limite di creature va onorato, accolto e amato. Teniamoci tutti per mano, pur a distanza di almeno un metro, per il momento!
*L’autore
Fratel MichaelDavide Semeraro è monaco benedettino dal 1983. Dopo i primi anni di formazione monastica ha conseguito il Dottorato in Teologia Spirituale presso l’Università Gregoriana di Roma. Nel suo servizio di intelligenza della fede e di accoglienza della vita, cerca di coniugare la sua esperienza monastica con l’ascolto delle tematiche che turbano e appassionano il cuore degli uomini e delle donne del nostro tempo. Collabora ad alcune riviste e, compatibilmente con le esigenze della vita monastica, tiene conferenze e accompagna ritiri. Fonte “Famiglia Cristiana” 30.03.2020