“Le parole dicono che siamo cristiani”, ma non bastano parole.
Nello spirito del Salmo 137 (Il canto dell’esule)
e della parola del profeta Geremia sull’esilio a Babilonia:
Lungo i fiumi, le strade, le case di questa terra,
ricordandoci della nostra terra sofferente
speravamo di riprendere a cantare allegre canzoni.
Ora sediamo e piangiamo.
Come cantare ora i canti del Signore
in questa terra divenuta due volte straniera?
Siamo venuti, Signore, nella speranza di allontanare tristezze.
Stiamo tornando nel pianto.
Non abbiamo più casa, non abbiamo più figli.
Siamo stranieri, tutti stranieri anche in casa.
Colui che mangiava il mio pane
si è rivolto contro di me e contro mio figlio:
l’unico figlio, colui al quale era appeso il mio cuore.
Come, o Signore, far cantare il cuore quando tutto attorno grida alla morte?
Come facesti, Maria, davanti al tuo Gesù, figlio tuo e Dio?
Il mio dolore non è diverso dal tuo: né più grande, né forte, né piangente.
Non ho più lacrime da versare per farlo comprendere.
E vedo una folla immensa piangente con me.
Che sia pronta a non dimenticarmi
quando la notizia saprà di passato.
Dicevo: almeno di mio figlio avrà pietà
e colui che poteva aver preso il mio cuore
ha reso la mia casa un deserto di ululati selvaggi.
Dove sei, Signore, perché a te possa io ricorrere,
dove sei, Signore, perché ti possa chiamare, invocare.
C’è tanta confusione attorno, Signore, tante parole, gesti, fiori.
Ho bisogno di silenzio, di quiete per ascoltare ancora il cuore del mio bambino, cullarsi sul mio petto. Sentire ancora palpiti che sfiorano l’amore.
Donaci resurrezione, Signore, come tu l’hai donata a tua Madre, una presenza certo diversa, ma che possa ancora sentirlo abbracciato al mio petto.
(Già pubblicato in notiziario.istituto@icpiazzamarconi.it)